La clemenza di Tito di Mozart ha inaugurato con successo la stagione della Fenice di Venezia, tra ovazioni solidali per le maestranze e proteste per il futuro del teatro. Davide Annachini
Tra manifestazioni di protesta, uno sciopero e volantinaggi a pioggia contro la nomina del nuovo direttore musicale, la stagione del Teatro La Fenice di Venezia si è inaugurata con La clemenza di Tito (una nuova produzione ascrivibile ancora alla precedente dirigenza), in un clima sicuramente turbolento ma anche appassionato, che ha visto unite maestranze del teatro e pubblico come da tempo non si ricordava nel mondo dell’opera. Il caloroso successo e le ovazioni solidali che hanno salutato orchestra e coro andavano al di là dell’apprezzamento per l’esecuzione, di per sé ammirevole e più che fortunata quale inaugurazione di una stagione tuttora dalle non poche incognite.
Testamento operistico insieme al Flauto magico dell’ultimo Mozart, la Clemenza di Tito ha forse sofferto di una limitata empatia con il pubblico di allora e in parte ancora con quello di oggi, come testimoniano le non frequenti apparizioni teatrali rispetto ad altri lavori del Salisburghese. Vuoi da un lato per la riduzione che a Praga ne fece il poeta di corte Caterino Mazzolà rispetto al testo metastasiano e per lo scarso tempo a disposizione con cui nel 1791 Mozart si trovò a comporre un’opera celebrativa per l’incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia, vuoi dall’altro per la sensazione che un melodramma coturnato e di respiro classico rappresentasse uno sguardo al passato più che al futuro per un autore così avanti rispetto ai suoi contemporanei, la Clemenza è stata storicamente penalizzata da un’analisi sbrigativa e ingiusta. Al contrario è proprio nella classicità dell’impianto che Mozart dimostra di ribaltare le convenzioni, confezionando una partitura di taglio non prevedibile, tesissima e spesso precipitosa, dove i rapporti tra i personaggi – in cui uno ama l’altro senza esserne ricambiato – innescano una spirale psicologicamente affascinante e modernissima, più orientata ai drammi personali che a quelli politici. Senza contare poi il respiro tragico della musica – ad esempio nello stupefatto finale del primo atto – come il suo intenso lirismo, che trova massima espressione nei personaggi tormentati di Vitellia e Sesto e nelle loro splendide arie, in cui le voci si intrecciano agli strumenti solistici in arabeschi struggenti quanto acrobatici.
Alla Fenice queste due parti hanno trovato interpreti ideali in Anastasia Bartoli e Cecilia Molinari: l’una alle prese con un ruolo monstre, che dal contralto spazia al soprano drammatico d’agilità, ha confermato come Vitellia una vocalità fuori dal comune (soprattutto per Mozart) quanto ad ampiezza, duttilità, estensione, insieme ad una personalità incisiva e tenebrosa, che – come già nei ruoli che l’anno vista trionfare in Verdi e Rossini – trova in un personaggio dominante e malefico il suo campo di battaglia più congeniale; l’altra nel ruolo en travesti di Sesto ha conquistato come interprete intensissima, essenziale sulla scena quanto ammirevole nel canto, dove il virtuosismo è sempre stato messo a servizio dell’espressione, nel delineare la natura quasi preromantica di un giovane innamorato votato a un’infelicità autodistruttiva. Il tenore Daniel Behle, seppure con un’emissione spigolosa e una dizione non sempre trasparente, ha definito un Tito Vespasiano adeguatamente autorevole e protagonistico, come il controtenore Nicolò Balducci ha riscattato dall’eventuale marginalità il personaggio di Annio con personalità spiccata e canto di pregevole qualità. Francesca Aspromonte è stata una Servilia efficace, soprattutto nell’interpretazione, mentre Domenico Apollonio un Publio troppo acerbo per non essere censurabile. Un direttore di consumata esperienza in questo repertorio come Ivor Bolton ha assicurato la garanzia di un’edizione molto equilibrata nei rapporti buca-palcoscenico, solida nell’impatto drammaturgico, stilisticamente accurata, con l’apporto personale del maestro britannico al clavicembalo nell’accompagnamento dei recitativi secchi. Ottima la risposta – in particolare negli strumenti solisti delle grandi arie, come il clarinetto e il corno di bassetto – da parte dell’Orchestra del Teatro La Fenice e del Coro preparato da Alfonso Caiani, baluardi della qualità artistica di una delle più importanti fondazioni liriche italiane.
Lo spettacolo a firma di Paul Curran inquadrava nella luminosa scenografia di Gary McCann, dalle museali architetture razionaliste di uno stile autarchico alla Piacentini, una classicità prossima ad essere devastata dall’attentato esplosivo ai danni di Tito per mano di Sesto, su istigazione della vendicativa Vitellia. Nella vulnerabilità dell’impero la regia ha giustamente fatto emergere la fragilità dei rapporti interpersonali tra i protagonisti, tale da compromettere la stabilità stessa del potere ma anche da promuovere alla fine la magnanimità di Tito, sovrano illuminato e clemente con i suoi nemici. Lo ha fatto con un eccellente lavoro di definizione dei ruoli, esaltati anche dal colore spiccato dei bei costumi d’alta moda dello stesso McCann, con le luci determinanti di Fabio Barettin, con un ritmo scenico attentamente rifinito.
Grande successo ancora all’ultima recita, con ovazioni per la Bartoli e per la Molinari, oltre come già detto per l’orchestra e per il coro.
Visto al Teatro La Fenice di Venezia il 30 novembre.
Foto di Michele Crosera.
















