Il testo dell’algerina Rayhana, rifugiata sotto pseudonimo per sfuggire a minacce fondamentaliste, è un testo ben costruito, che racconta l’universo femminile di un paese arabo. L’ha proposto la regista Serena Sinigaglia al Teatro Ringhiera di Milano – Renato Palazzi
Pur essendo una realtà di frontiera, dislocata in un’area tra le più disagiate della periferia milanese, il Teatro Ringhiera si è ormai ritagliato un suo ruolo peculiare, che va al di là del rapporto col territorio nel quale agisce. Malgrado l’aspetto esterno non proprio ameno – parzialmente risolto ora con interventi di street art – la sala è stranamente calda, accogliente. Il pubblico di solito non manca, ed è un pubblico misto, in cui gli abitanti della zona si mescolano coi frequentatori dei teatri del centro. L’intento di mantenere saldi legami col quartiere induce inoltre la compagnia Atir e la regista Serena Sinigaglia a delle scelte drammaturgiche spesso atipiche, che magari verrebbero messe in atto anche altrove, ma che qui acquistano un’ulteriore ragion d’essere.
C’è da augurarsi, ad esempio, che venga mostrato a delle platee più ampie Alla mia età mi nascondo ancora per fumare, il testo dell’algerina Rayhana allestito per il festival Intercity e presentato al Ringhiera per una decina di sere. È una proposta interessante per una serie di ragioni: in primo luogo, è opera di un’autrice di un paese arabo, benché ormai residente in Francia, ed è quindi espressione di una cultura tutta da scoprire. In secondo luogo, tratta un tema cruciale come quello dell’integralismo islamico, anzi del rapporto tra islamismo e condizione della donna, dal punto di vista di qualcuno che l’ha vissuto in prima persona. Infine è obiettivamente un buon testo, magari non un capolavoro, ma abile, ben costruito, a suo modo piuttosto avvincente.
Rayhana – uno pseudonimo adottato per sfuggire alle minacce di un gruppo di fondamentalisti – compone il suo affresco partendo da un luogo, un hammam, nel giorno riservato alle donne, e vi intreccia le storie di sette figure femminili, la tenutaria, la sua giovane inserviente e cinque frequentatrici variamente appartenenti alle fasce più laiche e disincantate della società algerina di oggi. Ce n’è anche un’ottava, che invece ha abbracciato il fanatismo religioso. Le sette amiche si trovano per fumare in libertà, per raccontarsi i loro guai, per sparlare degli uomini in genere e soprattutto dei “barbuti” che esercitano un ottuso potere bigotto e maschilista. Devono inoltre trovare un marito per Samia, l’inserviente, e attendono l’arrivo di una sensale di matrimoni.
A complicare le cose c’è però il fatto che Fatima, la tenutaria, all’insaputa delle altre nasconde nel retro una ragazza incinta, in fuga dal fratello che la sta cercando per ammazzarla. A un certo punto costui arriva davvero, e scortato da altri facinorosi pretende la consegna della sorella, ponendo l’hammam sotto assedio. Le donne provano a resistere, a inventare dei modi per salvare la vittima predestinata che frattanto, col loro aiuto, ha partorito: ma sarà la seguace dell’islam ad aprire la porta e a uscire con la neonata in braccio, invocando la lapidazione della peccatrice. In un finale un po’ confuso, si sente uno sparo, e a cadere è la più innocente di tutte, l’inserviente Samia coi suoi sogni nuziali, dopo avere pronunciato un nostalgico addio alla vita.
È un finale un po’ retorico, come un po’ retorici sono d’altronde altri accenni di un certo vago sentimentalismo, incombente soprattutto nella contrapposizione frontale tra le virtù femminili e la barbarie dei maschi, appena temperata dalla presenza di una donna schierata coi barbuti. Ma è, credo, il prezzo da pagare a una forma di scrittura teatrale che ancora contempla il ricorso a una robusta trama narrativa, un procedimento ormai da noi quasi obsoleto. Ci sono comunque, a correggerne gli inevitabili slittamenti dolciastri, delle abbondanti dosi di ironia. C’è l’efficace regia – affettuosamente partecipe, né troppo asciutta, né troppo dichiaratamente schierata – della Sinigaglia, che proprio quando si misura con questi materiali insoliti dà a mio avviso il meglio di sé.
E poi c’è un coro di otto attrici una più brava dell’altra, dalla trascinante Anna Coppola, che tratteggia il personaggio più maturo e ricco di sfumature, ad Arianna Scommegna, una tenera, fresca Samia, all’esuberante Fatima di Marcela Serli, e poi via via a Maria Pilar Perez Aspa, Licia Granelli – quasi la maschera caricaturale dell’algerina immigrata oltremare – Matilde Facheris, Annagaia Marchioro e Chiara Stoppa, l’unica ad assumersi, per fortuna, il ruolo di “cattiva”.
Visto al Teatro Ringhiera di Milano. Repliche 11-12 novembre a Stoccarda, 24 novembre a Monfalcone
Alla mia età mi nascondo ancora per fumare
di Rayhana
traduzione: Mariella Fenoglio
regia: Serena Sinigaglia
scene: Maria Spazzi
costumi: Federica Ponissi
luci: Roberta Faiolo
con: Anna Coppola, Matilde Facheris, Mariangela Granelli, Annagaia Marchioro, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Marcela Serli, Chiara Stoppa