Il tema torna ciclicamente d’attualità. Il balletto è museale? Teorie a profusione cercano ancora una volta di dimostrare l’assunto. E intanto nei teatri di tutto il mondo si continua a programmare. E nuove generazioni di artisti continuano a renderlo vivo e emozionante. E a fiorire grazie anche a questo. – Silvia Poletti
Si discute molto sul fatto che il balletto come genere sia oramai museale. Ovvero, ne discutono i teorici- che come tali vivono nel mondo delle idee con la testa persa in elucubrazioni filosofiche e sedicenti estetiche, che fanno tanto engagé ma sono totalmente prive di contatto con la realtà vera: basterebbe infatti buttare uno sguardo su quello che si vede e si presenta, nei teatri di tutto il mondo, che si capirebbe che l’assunto è una sonora sciocchezza.
La diatriba è del resto vecchia almeno di cent’anni. Salvo poi vedere nel corso del tempo come l’arte stessa abbia messo tutto in ordine, assorbendo istanze innovative provenienti dalle avanguardie e ricerche e a queste magari dando ordine, logica, know how. Evidentemente però per i nuovi maitres à penser la storia non ha insegnato nulla ( o ancora si illudono, come già avvenne ai loro precursori- di essere quelli che riusciranno a cambiare le cose) e appunto a questo siamo ancora. Il fatto è che non si vuole considerare un balletto di repertorio – dell’Ottocento, del Novecento e oramai dei primi venti anni del Duemila- come un testo di riferimento: alla stregua di una tragedia greca o di Shakespeare o Pirandello o Pinter, o Sarah Kane.
E invece tale è, anche se con i dovuti, ovvi distinguo. Perché fatta con il corpo quest’arte si evolve e trasforma di generazione in generazione: il testo originario di Petipa, per esempio, o di Balanchine, ma anche di Forsythe, Neumeier o – per rimanere ai nostri- Monteverde subisce modifiche e evoluzioni, si adatta ai nuovi corpi e ai nuovi temperamenti di chi lo interpreta ( oltre che alle necessità produttive di chi lo allestisce). Perché cancellarli o relegarli in archivio se continuano a parlarci ancora, come fanno Medea, Amleto o Winnie?
Si prenda, per esempio, un ‘ballettone’ di tardo Novecento ( 1974) come Manon. In queste settimane di fine 2018 l’hanno programmato nell’ordine il Norvegian National Ballet a Oslo; l’English National Ballet a Londra e in tour britannico; lo Stanislavsky a Mosca e la Scala a Milano ( mentre l‘Opera di Roma l’aveva appena realizzato a maggio). Splendida confutazione di fatto dell’idea stessa di museificazione, perché le quattro edizioni, pur partendo dalla medesima tessitura drammaturgica e coreografica, hanno inevitabilmente carattere, afflato, intenzione, stile diversi: Maria Kochetkova, che è Manon a Oslo, è diversa da Alina Cojocaru a Londra, e dalla Zakharova a Milano. Eppure attraverso queste danzatrici la coreografia di MacMillan continua a splendere della sua logica teatrale e drammatica; diventa rivelatrice della maestria del suo autore e insieme si rinnova e reinventa: i pas de bourree e i ronds de jambe diventano nuovamente ma in maniera diversa atteggiamenti seduttivi, i voli che rimandano ai rotational lifts del pattinaggio artistico sono ora grida di smarrimento ora di dolore nel pas de deux finale.
E poi, che magnifica occasione di maturazione artistica per i giovani che affrontano questi ruoli! Che fondamentale prova per verificare potenziali e sviluppi, comprendere anche l’intelligenza dell’interprete e le sue modalità di studio, analisi, introspezione nell’affrontare non solo l’aspetto tecnico, ma psicologico del ruolo da interpretare!
Alla Scala, si diceva, Manon è tornata con un turn over di debutti accanto alle consuete rappresentazioni canoniche per le star. In questo momento, abbiamo detto più volte, la compagnia milanese è in uno stato di grazia che se possibile va ulteriormente potenziato. Ci vorrebbero, ci vogliono ancora più spettacoli, e più programmi: più si danza, più si prende padronanza, più ci si cimenta in tutto il possibile che offre oggi l’arte coreografica. E’ un discorso di politica culturale, che forse trascende la stessa Fondazione e può coinvolgere il MIBAC stesso: compagnia nazionale o no?
Nonostante le malaugurate defezioni di qualche tempo fa ( tre fuoriclasse come Di Lanno, Greco e Tissi volati in altri lidi), il comparto maschile si è fatto interessante. Mentre Roberto Bolle si avvia ad un tramonto dorato ( il suo stereotipato Des Grieux accusa stanchezza, nonostante la levità fisica e interpretativa della Zakharova con cui ha condiviso la scena per tre spettacoli), nei primi ranghi nuovi nomi si attestano all’attenzione.
Il ventottenne Claudio Coviello ( accanto alla squisita e sfaccettata Manon di Emanuela Montanari) ha una sensibilità palpitante, un lirismo connaturato alla sua personalità e uno stile molto musicale e arioso- è un danzatore/attore che usa la coreografia per fare vivere il ruolo che interpreta. Lo si è visto in La Dame aux Camélias, lo conferma in stagione il suo Des Grieux cesellato e costantemente in parte, al di là -o forse grazie anche a una chiara comprensione del pensiero coreografico di MacMillan. Da parte sua il ventitreenne Timofej Andrijashenko, neo-primo ballerino, è destinato a grandi cose. Diremo una volta per tutte che è molto bello – biondo, viso angelico, fisico plastico- atout come si è visto vincente. Ma questa qualità non deve diventare prioritaria per costruire una carriera. Nel senso che Andrijashenko ha tutte le possibilità per sviluppare un lato interpretativo e una presenza scenica ricca di contenuti oltre che armoniosa di forma. Il suo Armand nella Dame aux Camélias è stato rivelatore. Des Grieux, psicologicamente più facile, anche se più esigente nella danza, si rivela n lui ancora acerbo, eppure promettente, nella coloritura del carattere, nella dialettica con la sua Manon.
Personalità: è del resto quella che fa di un ballerino un artista. Il ruolo di Lescaut, filibustiere baro e puttaniere, che vende amante e sorella ai migliori offerenti,è un’occasione d’oro per rivelare un talento teatrale che non si adagia su clichés dell’amoroso. Nureyev volle ballarlo prima di danzare Des Grieux e ben si capisce. Bello vedere quante sfaccettature -seppure ancora in abbozzo- può riservare il ruolo interpretato da tre danzatori diversi per approccio, temperamento, stile. Christian Fagetti è autorevolmente gaglioffo, davvero impunito: arrogante e smaliziato, spregiudicato e a tratti disturbante, lavora in dettaglio- dagli sguardi ai gesti – senza perdere mai il filo del suo personaggio. Nicola Del Freo dall’espressione sottile, sembra onesto come Iago e come Iago insinuante: lo smagliante assolo iniziale intona la sua tracotanza permeata di signorilità. Walter Madau gioca sui contrasti, la bellezza che si scopre malvagità, dissolutezza, depravazione.
In questi artisti c’è talento da alimentare con proposte giuste e ricche,e anche con sfide ardue perché così si cresce ( arriva MacGregor, tra poco con il blockbuster Woolf Works). Stesso vale per le ragazze. Alla deliziosa Nicoletta Manni il ruolo di Manon calza come un guanto: è maliziosa, fresca, femminile, scervellata e corruttibile come l’eroina di Prevost – la tecnica forte ma elegante e controllata l’aiuta a superare le difficoltà della danza; l’affiatamento personale con Andrijashenko rende la sua prova ancora più vera nei duetti amorosi. Martina Arduino, ventiduenne, nel ruolo della cortigiana amante di Lescaut si mangia la scena con piglio carismatico; conosciamo poi bene il senso drammatico di Virna Toppi, ultima Manon di questa serie. Senza però un contorno adeguato, comprimari convincenti, ensemble ‘in parte’ anche le stelle più luminose non brillerebbero e darebbero giustizia all’opera. E’ proprio questo che invece ora c’è alla Scala, in tutta la sua gerarchia: vitalità, coesione, senso artistico. Si tratta davvero di patrimonio delicatissimo, da non disperdere. Perché è così che si è dimostrato fino ad oggi nel mondo perché la danza di ieri nutre e arricchisce la scena di oggi.
In apertura Nicoletta Manni e Timofei Andrijashenko in L’Histoire de Manon. Foto Brescia e Amisano, courtesy Teatro alla Scala