“La parola padre”, lo spettacolo che Gabriele Vacis ha realizzato coi Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, porta a compimento un lungo lavoro di selezione internazionale ed elaborazione di storie di donne, alle prese con le molteplici sfaccettature di un ruolo scomodo e ingombrante – Renato Palazzi
La parola padre, lo spettacolo che Gabriele Vacis ha realizzato coi Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, è davvero un lavoro molto interessante. Lo definisco interessante, prima che bello, perché mi pare che la sua qualità stia soprattutto – più che nel risultato finale – nel modo in cui è posto in luce il procedimento attraverso il quale esso viene costruito praticamente “a vista”, quel suo modo di comunicare direttamente col pubblico, rinunciando agli artifici della rappresentazione, quella sua capacità di attingere senza fronzoli a una tracimante urgenza di vissuti quotidiani. Poi, certo, è anche un bello spettacolo, di una sua bellezza asciutta, essenziale, vorrei dire per certi aspetti necessaria, fuori da astratti canoni estetici.
La forza e la pregnanza de La parola padre derivano dalla scelta del regista di non puntare su una struttura drammatica compiuta e indirizzata verso un esito stabilito. Il copione si compone via via sugli apporti, sulle relazioni reciproche e anche – perché no – sulle diverse matrici espressive ed esperienze professionali delle sei attrici, tre italiane e tre provenienti da paesi dell’Est, la Bulgaria, la Polonia, la Macedonia. Le ragazze si sono incontrate, e sono state assemblate, grazie a una serie di seminari che si sono svolti nei vari paesi. Ma questa origine “didattica”, che resta comunque in evidenza, non costituisce un limite, anzi garantisce la freschezza e in qualche modo l’autenticità, la particolare intensità emotiva dell’operazione.
Vacis, che in questo genere di interventi è un autentico maestro, ha adottato un metodo ormai codificato che risale a Pina Bausch, quello cioè dell’intervista, della strategica discesa nel privato delle attrici per ricavarne racconti, sensazioni, sentimenti, ricordi da riportare in scena pari pari, senza tentare di dare loro una rigida forma narrativa. Il punto di partenza, come indica il titolo, è proprio la parola padre, i diversi termini usati, nelle varie lingue, per indicare le molteplici sfaccettature di questo ruolo scomodo e ingombrante. Il padre può essere un mito infantile, un modello da seguire, una voce ascoltata al telefono fra un aereo e l’altro, o una figura repressiva, che vuole sempre avere l’ultimo giudizio sui fidanzati della figlia, o l’angoscia di costei per un qualche segno di decadimento o di malattia colto in un anziano genitore.
Ma padre significa anche patria – l’etimologia è la stessa – significa rapporto col proprio paese, con la propria cultura, con le proprie radici. Significa potere, educazione, influenza delle condizioni politiche nelle quali si è cresciuti. Interrogarsi su questi temi è un modo di riconoscere se stessi in un mondo sottoposto a dei fulminei cambiamenti epocali. Le ragazze li evocano attraverso dei minuti stati d’animo, delle impressioni soggettive, degli affetti pudicamente appena sfiorati: ma questi pezzi di vite diverse, intersecandosi, sovrapponendosi, diventano i frammenti di un’unica coscienza collettiva, i tasselli di un’ideale storia, grande o piccola poco importa, dell’identità europea di questi anni.
Attraverso questa prospettiva minimalista, attraverso questi scorci esistenziali – amicizie perdute, amori finiti male – emerge un più ampio sottofondo di guerre, divisioni, conflitti generazionali. La ragazza macedone che rivendica orgogliosamente la discendenza da Alessandro Magno, ma rimpiange la convivenza di popoli diversi sotto l’egida di Tito, e lamenta la perdita di un fratello morto in circostanze probabilmente sanguinose, la ragazza polacca che rievoca il regime comunista attraverso il ricordo di una rudimentale lavatrice o delle code per conquistare una scorta di carta igienica conducono gli spettatori in un percorso di dolori e di speranze che ci tocca tutti da vicino, e fornisce un vivido ritratto del nostro tempo, più di qualunque testo d’autore.
L’efficacia delle testimonianze non è compromessa, ma anzi valorizzata dalla loro stratificazione linguistica: le attrici straniere si servono per lo più del proprio idioma, le attrici italiane ne traducono le parole al microfono, mentre su un computer scorre il testo in inglese, proiettato su uno schermo, dando luogo a un denso magma sonoro e visivo. Funziona la scena fatta di nulla, uno scarno paesaggio di bottiglioni di plastica che formano muri o crollano rovinosamente sul pavimento. Funziona quella peculiare mistura di recitazione, canto, movimenti corali sorvegliatissimi, come sempre avviene nello stile di Vacis. E sono bravissime le attrici, una somma di energie allo stato puro, coinvolgimento personale, corpi, volti e in alcuni casi doti tecniche non comuni.
Visto al CRT Teatro dell’Arte di Milano. Prossime date: 17 aprile, Teatro Gries, Bolzano; 18 aprile, Teatro Manzoni, Calenzano (Fi)
La parola padre
drammaturgia e regia: Gabriele Vacis
scenofonia e allestimento:Roberto Tarasco
coordinamento artistico: Salvatore Tramacere
con Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia)
sede: Milano, CRT Teatro dell’Arte, fino al 22 marzo. Bolzano, Teatro Gries, 17 aprile, Calenzano (Fi) Teatro Manzoni, 18 aprile