Felice riproposta del Giulio Cesare di Händel a Modena, seconda tappa di una lunga coproduzione tra sei teatri, all’insegna di autentici specialisti del Barocco. Davide Annachini
Giulio Cesare non solo occupa uno dei primi posti tra i capolavori di Händel ma rappresenta un caposaldo fondamentale del repertorio settecentesco: la musica che inanella pagine bellissime, articolate tra il patetico e il furore, tra l’eroico e il brillante, quanto la definizione psicologica dei personaggi, tra il serio e l’ironico, con punte di languore e sensualità riferite in particolare a Cleopatra (effettiva protagonista della storia), ne fanno un’opera fantasmagorica e sorprendente, in linea con le finalità prime dello stile barocco. La tradizione che l’ha tenuta in vita nel passato ne ha travisato spesso l’attendibilità filologica ma negli ultimi decenni le cose sono cambiate e progressivamente le esecuzioni si sono fatte sempre più affidabili sotto il profilo vocale/strumentale e più intriganti sotto quello teatrale/interpretativo. Di sicuro l’impegno per metterla in scena è enorme e quindi va tutto il merito ai teatri di Ravenna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e Bolzano, che in sinergia hanno dato vita alla coproduzione dell’edizione attualmente in circuito nelle sei città.
Lo spettacolo – visto al Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena – presentava al suo arco molte frecce sul piano musicale, a partire da un complesso storicamente accreditato per il Barocco come l’Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone per arrivare a un cast di professionisti, tra cui si segnalavano in particolare le voci di controtenori e sopranisti per quei ruoli un tempo oggetto di compromessi imbarazzanti con i baritoni e i bassi o – nei casi migliori – con i mezzosoprani. Raffaele Pe era giustamente l’interprete più indicato su piazza per ricoprire la parte di Giulio Cesare, vuoi per la rispondenza vocale – flessuosa nell’emissione, variegata nei colori, sicura nelle agilità – vuoi per l’autorevolezza scenica, dalla presenza statuaria ma dinamica, che ne hanno fatto un protagonista credibilissimo e sensibile, al di là di qualche opacità in cui poteva forse trasparire una momentanea stanchezza. Anche Filippo Mineccia ha figurato come un valido Tolomeo specialmente a livello interpretativo, nella raffigurazione di un ambizioso, equivoco e fluido sovrano, ma anche come esecutore incisivo e virtuosistico, pur dovendo fare i conti talvolta con una scrittura un po’ bassa per la sua vocalità di controtenore. Tra i migliori in campo è stato senz’altro Federico Fiorio, che con il suo timbro limpido di sopranista, l’intonazione impeccabile e l’intimismo dell’espressione ha dato vita a un Sesto dolente ma anche fiero, aristocratico e poetico, oltre che credibilissimo scenicamente come giovane orfano e vendicatore di Pompeo. Punta di questa esecuzione è stata soprattutto Marie Lys, soprano emergente nel repertorio barocco – dove si ricorda in particolare la sua splendida Alcina al Maggio Musicale Fiorentino 2022 in sostituzione di Cecilia Bartoli –, una Cleopatra dal canto vaporoso, agile, espressivo, in grado di cogliere tutte le sfaccettature del personaggio, malizioso, sensuale, struggente, brillante, come di restituirlo sulla scena con una freschezza e una vivacità catturanti. Il resto della compagnia si segnalava per il vibrante e violento Achilla di Davide Giangregorio, basso di bella e ampia vocalità, per la Cornelia nobile e umiliata – ma anche flebilissima – di Delphine Galou, per i validi Nireno di Andrea Gavagnin e Curio di Clemente Antonio Daliotti.
La direzione di Ottavio Dantone ha tenuto le fila di un’opera così ampia e variegata – presentata nell’edizione critica di Bernardo Ticci – con la consapevolezza stilistica e il respiro belcantistico di sempre, anche se con un’incisività teatrale e interpretativa forse leggermente al di sotto delle aspettative, intuibile anche nella risposta non sempre smagliante degli strumenti originali dell’Accademia Bizantina, incappata in qualche incidente di percorso nell’accompagnamento solistico di certe arie, come nel caso della famosa “Va tacito e nascosto” di Cesare, compromessa nel suo splendido rapporto voce-corno.
E’ stato questo il momento più discutibile dell’esecuzione anche per via di quanto succedeva in scena, dove la rivalità tra Cesare e Tolomeo si consumava praticamente a torte in faccia, all’interno di una regia che tendeva a trasformare in grottesco ciò che nel nobilissimo Händel è più riferibile semmai all’ironia e all’ambiguità, qui tradotte soprattutto in un Tolomeo al limite della caricatura, avvolto in vestaglie dai profili di marabù e circondato da una corte stucchevole di eunuchi. Per il resto lo spettacolo di Chiara Muti viveva sulle suggestive scene di Alessandro Camera – costituite da frammenti marmorei che alla fine si componevano nel volto monumentale di Cesare – sui bei costumi di Tommaso Lagattolla, sulle luci suggestive di Vincent Longuemare, trovando (quando non imboccava soluzioni troppo fini a se stesse, come la citazione del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare) momenti felici in particolare nel ritmo narrativo e nella focalizzazione dei diversi caratteri, ottimamente restituiti da tutti gli interpreti.
Buono il successo per gli esecutori alla prima modenese, seconda tappa della coproduzione, non particolarmente affollata purtroppo quanto a presenze di pubblico.
Visto al Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena il 24 gennaio